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  • Aerugines - Gerardo De Simone

    All'alba della civilltà industriale, in controcanto ai progressi della tecnica e della vita materiale, la rivoluzione psicologica alimentò il genio creativo dei "pittori dell'immaginario" – secondo la felice formula di Giuliano Briganti – che attraverso visioni, incubi, sogni, fantasie, rievocazioni mitiche e letterarie diedero forma ai fermenti protoromantici e agli spettri dell'irrazionale (quello che un secolo più tardi verrà chiamato l'inconscio). Altrettanta forza visionaria può servire per raccontare, in parole o immagini, l'estremo opposto della parabola, il tramonto odierno dell'età industriale, la fine di un'epoca segnata in profondità, nell'economia e nella società, nella cultura e nell'ideologia, dalla produzione meccanizzata, dalle fabbriche, dagli operai, dalla lotta di classe, dalla 'religione' del lavoro – un repertorio che ha potentemente alimentato l'immaginazione artistica, dai 'moderni Ciclopi' di Menzel al Quarto Stato di Pellizza, dalle mitologie tubo-cubiste di Léger agli operai 'costruttori' delle acciaierie di Piombino di Fernando Farulli. La storia degli ultimi vent'anni, in Italia e in altri paesi, è costellata di dismissioni (come quella dell'ILVA di Bagnoli narrata da Ermanno Rea), delocalizzazioni, chiusure di stabilimenti, smantellamenti. La dimensione umana, antropologica di questo cambiamento, dai risvolti spesso drammatici ed emergenziali – e in assenza ad oggi di alternative concrete o di prospettive di ripresa – è lo specchio più evidente della crisi, testimoniata quotidianamente dalle cronache. Ma non meno importante, anche se assai meno presente negli organi di informazione e nell'opinione pubblica, è l'aspetto che investe gli spazi, i luoghi della produzione industriale. Tra Otto e Novecento le architetture della modernità plasmarono nuovi scenari (urbani e suburbani), nuovi paesaggi, nuovi simboli. Cantieri, fonderie, capannoni, ciminiere, raffinerie, gasometri, padiglioni, centrali, tralicci… strutture di possente impatto visivo ed ambientale. Sono questi luoghi abbandonati, moderne rovine in ferro, acciaio, cemento, amianto ad aver calamitato l'attenzione e l'ispirazione del giovane artista ligure Alessandro Carnevale, in particolare le vestigia a lui familiari nella sua terra d'origine, il Savonese. Carnevale, il cui talento versatile si cimenta anche in musica, letteratura, video, ha recepito in profondità il potenziale evocativo di questi scheletri giganteschi di un mondo dismesso, realizzando un ciclo potente e memorabile, da lui intitolato "Sullo scandalo metallico". L'efficacia di queste vedute di archeologia postindustriale – definite "un atto di giustizia", di risarcimento testimoniale nei confronti della defunta civiltà dell'acciaio, dallo scrittore Maurizio Maggiani – è data anzitutto dalla scelta del medium. Mai come in questo caso "il medium è il messaggio": l'artista infatti non ha dipinto su supporti tradizionali, come la tela o la tavola, ma è andato alla ricerca di materiali consustanziali agli oggetti rappresentati: lastre di ferro reperite nelle discariche, residui di rottamazione (di altiforni, caldaie, etc.), corrose e ricoperte di ruggine, irregolari, scabre, frammentarie. Brandelli riesumati dagli scarti della metallurgia, fossili di un'era non geologica ma storica e tecnologica, che recano su di sé, nella 'carne viva'della propria matericità corrosa, l'essenza sedimentata e 'sanguinolenta' della propria vicenda di uso e abbandono (lo 'scandalo' dell'abbandono). Reperti combusti, ma ancora ardenti, affocati di rugginosità incendiaria, sui quali Carnevale traccia – con acrilici, smalti, graffiture, mordenti acidi – ragnatele segniche, suture spinate, cicatrici di ferite non rimarginate, coaguli, chiazze, stesure liquide: scure, indelebili impronte, 'marchiate' in negativo, di scenari grandiosi della decadenza postmoderna; talora indizi di cartografie, talora 'griglie' invalicabili (nel senso di Rosalind Krauss). Da un lato l'artista è ben cosciente della forza espressiva della materia e delle sue trasformazioni, anche violente (si pensi ai sacchi e alle plastiche bruciate di Burri; o all'uso dei metalli e alla sensibilità alle polarità energetiche dell'Arte Povera – Merz, Kounellis), e delle pulsioni visive e sentimentali dell'Informale (i segni di Hartung, le astrazioni polimateriche di Tàpies); dall'altro rivela una sintetica, visionaria forza figurativa, che rimonta fino alla veduta di Toledo del Greco, a Turner – come ha ben visto un commentatore dell'opera di Carnevale, Francesco Maria Fabrocile –, campione dei 'pittori dell'immaginario' prima evocati, nelle accensioni cromatiche, nei tagli delle inquadrature (debitrici anche di Monet), nella percezione acuta della bellezza 'sublime' della distruzione; e in generale a quel filone che dal Romanticismo propriamente detto giunge al 'romanticismo informale' novecentesco criticamente messo a fuoco da Francesco Arcangeli. Nello stile compendiario e stenografico, e nella dimensione rievocativa, la pittura di Carnevale può richiamare Klee o de Pisis; nello spirito tragico  Giacometti, o Sironi (per la cupezza delle visioni architettoniche) o Vespignani (pure richiamato da Fabrocile: si osservino le vedute spettrali dei gasometri di Roma); nei soggetti, i classici cicli di 'ritratti di fabbriche' dei coniugi Becher e di Gabriele Basilico, sguardi tuttavia fotograficamente freddi e impietosi, diversi dalla incandescente temperatura pittorica delle ruggini di Carnevale. La pluralità e la diversità dei referenti (che non vuol dire necessariamente fonti), sorprendente in un artista così giovane, non mina tuttavia in senso citazionistico o derivativo questo ciclo così compiuto e coerente, che fonde mirabilmente energia materica, grandiosità visionaria, memorialismo dolente, e che si completa di titoli (Rifrazioni, Limpido addio, Smisurata preghiera, Eresia della sera, Verso Est, Questo bacio vada al mondo intero – omaggio al romanzo di Colum McCann, Il seme del pianto, Il respiro del mondo, Escatologia industriale…) e aforismi suggestivi: “Cattedrali di ferro, tempeste di luce, incendi – di ghiaccio… Circolari scheletri dormienti: meravigliose geometrie d’un relitto incandescente". "Che bell’inganno sei, mia disperata fortezza. E che grande il tuo tempo, che solitudine. Dipingo un incendio d’intenzioni, un sottosquadra di malinconia. Guardo attraverso protezioni che tutto infrangono tranne la bellezza, incompiuta, d’uno sbaglio. Resiste un assedio di ruggine, polvere e rimpianti". "La notte si rincorre fra le fessure, i cavi, i nodi di ferro. E piano accende una speranza stellata, intima, sommessa, che libra leggera fra questi mostri immobili, freddi, dolcissimi, sublimi”.

    Gerardo de Simone

  • Civiltà fossile - Maurizio Maggiani

    La civiltà dell’acciaio è morta, sepolta, implosa sotto il peso delle sue fonderie, delle sue cokerie, delle sue trafilerie, delle sue macchine costruttrici di macchine, dei suoi torni tornitori di torni. Sotto la coltre delle sue ruggini ora giace l’età degli uomini edificatori di mondi sospesi sui bilioni di bilioni di tonnellate di travi che hanno forgiato, imbullonato, saldato. Lo hanno fatto con mani di inumana forza, brandite come badili della volontà, come armi del riscatto, lo hanno fatto nella certezza di poter reggere sulle proprie spalle il peso di quell’acciaio e, dunque, il peso del mondo. Lo hanno fatto nella convinzione che il loro mondo avrebbe retto l’equilibrio dell’universo intero.

           Ora quella civiltà e i suoi uomini giacciono in una tomba a cielo aperto grande come il mondo intero. E nulla ancora è venuto a coprire quelle immani spoglie, nulla di così potente e smagliante da cancellarne le orme, soffocarne gli spiriti fossili. Spiriti di una tale, inaudita energia da conservare ancora una luminescenza, persistente e pulsante e oscura. Luce nera di una stella nera. Che c’è, ha la sua lunghezza d’onda, il suo posto nello spettro delle frequenze, ma ormai forse solo i cani sono ancora capaci di vederla e sentirla. I cani e certi umani che hanno la facoltà, non imparata ma nascente, credo, di saper guardare di sghimbescio, per certe particolari angolature da dove si può percepire il suo frangersi e scomporsi in visibile.

           Dico questo perché magari non ci capirò un cazzo di arti plastiche, ma guardando ciò che ha fatto questo giovane uomo, ho visto con stupefatta meraviglia quello che pensavo in onestà non fosse più visibile a uno sguardo che non fosse il mio e dei cani che mi hanno accompagnato a ramingare, a frugare nelle ruggini delle macerie dell’ILVA in cerca delle mani di mio padre, dell’orgoglio suo e dei suoi compagni, in cerca della grandezza defunta della modernità. Allora ho trovato quello che quest’uomo ha portato via con sé da altre e identiche cave di maceria, venendo da tutt’altra parte da dove venivo io, venendo dall’epoca nuova, della nuovissima contemporaneità immemore. E mi chiedo se saprà mai che ciò che ha fatto è prima di ogni altra cosa atto di giustizia.

     

     

    Genova, maggio 2013

  • L'opera di Alessandro Carnevale - Francesco Maria Fabrocile

    Ho conosciuto Alessandro Carnevale non per ragioni direttamente artistiche: cercava un’agenzia letteraria per suoi progetti di scrittura ma, curiosamente, allegava alla e-mail di presentazione suoi disegni a carboncino, a sanguigna, acquarellati e non. Cieli di nembi e cirri tumidi, torsi virili dal sentore michelangiolesco, marine in dissolvenza a perdita d’occhio: classici studi, classicistici per forma e segno, a prima vista. Sottendevano dell’altro. Nella mia risposta ho allora immediatamente aggirato le questioni che mi venivano poste per concentrarmi sul suo discorso artistico: non erano, quegli studi, sole prove tecniche e formali di un brillante laureato d’Accademia, perché un tremore più profondo le rendeva precordi di tanta, ulteriore materia espressiva.

           Solo allora Carnevale iniziò a mostrarmi il suo percorso artistico, a parlarmene. Percorso già cominciato, e anzi nel vivo della sua propria ricerca nonostante la giovanissima età: artista poco più che ventenne. Il suo – raccontava – è un paesaggio post-industriale perché personalmente in quel paesaggio egli è nato e cresciuto. Il suo paesaggio è esteriore e interiore, è un paesaggio esistenziale e reale, soggettivo e oggettivo. E altri artisti ve ne sono già così impostati e inclinati, se non per un fatto – che poi è il fatto peculiare e anomalo dell’opera di Carnevale: che a intuire e rappresentare il mondo tutto novecentesco della fabbrica come un mondo finito per sempre, relegato al passato (o a un altrove) da cesure irreversibili, è non un anziano ex operaio o ingegnere, un suo protagonista diretto. Ma un giovanissimo, nato già al di fuori di quel mondo per obiettivi fattori anagrafici.

           Negli aforismi che associa ai suoi lavori Carnevale parla di “scandalo” per riferirsi alla realtà industriale che rappresenta: scandalo però è forse proprio la sua posizione di mentore di una storia (quella della fabbrica) fuoriuscito dalla storia stessa. La posizione di un protagonista post-protagonista. Fuori dal tempo della fabbrica, scettico verso il proprio attuale tempo storico l’artista si pone in una sospensione atmosferica e limbale da cui può dipanare il suo discorso.

           «Eravamo padroni d’un mondo postmoderno – scrive l’artista - senza più falsi miti, fedi posticce o ideologie totalizzanti. Fingevamo di non vedere, in realtà. Il mondo accadeva aldilà della nostre pretese: restavano milioni di tonnellate di cemento, ferro, acciaio, amianto – immobili, eterni silenziosi relitti, testimoni miracolosi. Pensavamo di ricoprire il nostro mondo con architetture scintillanti, smalti e ordigni cristallini: nascondere, smantellare, cancellare. Invece il mistero, ancora: come sempre la bellezza, contorta, insinua ogni fessura».

           Su lastre di ferro Carnevale ottiene evanescenze policrome e accese con l’irrorazione di acidi e reagenti diversi; poi con smalti scuri procede calligrafico a disegnare orditure di tralicci, bracci meccanici, cisterne, cremagliere di teleferiche trasportatrici, spesso in sequenze ossessive verso un punto di fuga o staticamente allineate torve sull’orizzonte. Un punteruolo, un trapano possono incidere i segni finali: schiarimenti, spigoli vivi che fanno disegno in un procedimento sin qui ancora tutto pittorico.

           Le cerca, le lastre, nelle discariche dei rottamatori di ferro, i quali le pagano a peso per poi rifonderle: provengono dalla coibentazione dei locali caldaia, degli altiforni, dall’edilizia che smembrano. È probabile, e gli piace pensarlo, che alcune siano state parte degli stabilimenti che poi ritrae.

           Il risultato è singolare ed inedito: pittura e disegno, forma, potenza visionaria, sì: ma su materie e con materiali estranei al disegno, alla pittura e alla forma stessa. I mezzi di Carnevale sono invece i materiali, gli strumenti, i processi di lavorazione della fabbrica stessa: che qui rivivono, ma al di là della loro funzione storica e culturale. Riprenderli (lastre, ossidi, sali e acidi) ha un valore rituale e cerimoniale. Fare e creare con strumenti defunti ha il senso di evocarne l’anima, di farla risalire alla vita per lo stretto tempo della realizzazione dell’opera. È una piccola negromanzia sul corpo dell’archeologia industriale l’atto di rappresentarla con le sue stesse spoglie materiali. E difatti gli scenari di Carnevale recano sempre un’atmosfera che non può essere di questo mondo: una bruma avvolge tutto, demarca una dimensione di esistenza. Notturni (come Notturno, L’eresia della sera, Dissolvenze), sere, albe (Tre volte l’alba) sono suoi temi ricorrenti. Sono temi romantici.

           Ogni lastra sottende però un irradiamento di luce che balugina sullo sfondo della figurazione. L’occhio inizia a cercarla in ogni opera: per scaldarsi, per confortarsi. La cifra del “chiaro di luna”, luna a parte, è costante: in Rifrazioni il cielo sopra la fabbrica tremola di nubi grigie su fondo gratuitamente, poeticamente roseo; in Teoria, memorie nell’oscurità, un fuoco ultimo, lontano, annuncia un’insondabile via di fuga: forse fiamma libera di bruciatore, esso spicca nel buio e catalizza tutti gli sguardi. Stessi squarci di luce e di illuminazioni si aprono nelle scenografiche compagini notturne di Turner: e, ove non bastasse, accorrono qui anche le scelte di termini leopardiani nelle titolazioni (come Questo bacio vada al mondo intero) a denunciare una salda radice romantica in Carnevale.

           C’è di più: le strutture archeoindustriali rappresentate inverano sempre una sintassi intimamente armonica. Tralicci, gru, condutture, tutto di queste fabbriche assume con la sua forma filamentosa e la stesura reticolare un aspetto complessivo di fitta, dodecafonica partitura musicale. Come nel primo Vespignani espressionista, ordine e caos, classico e decadente si rimandano in un contrappunto stilistico che rende ogni lavoro di Carnevale una composizione piena e vissuta. Se anche per lui, come per Vespignani, sarà l’irrobustirsi degli stilemi classici e formali la via maestra per esprimere il caos, o un commosso romanticismo postmoderno aperto a sperimentazioni di varia natura, lo saprà dire il tempo che l’artista ha tutto davanti a sé.

     

     

    Roma, giugno 2013

     

  • Amabili resti - Gabriella Cerbai

    L'archeologia urbana è alla base della cultura visuale post-moderna, un'ossessione imprescindibile per chi legge e restituisce in chiave artistica il nostro mondo, ma anche una realtà di struggente drammaticità che si staglia senza penetrare lo sguardo dei più, come cancro che silente si innesta e avvelena. I demoni che questa porta con se' sono il vero desolato orizzonte delle nostre campagne, delle periferie cittadine, archetipo della distruzione nell'epoca antropocentrica, del fallimento dell'uomo come creatore, che violentemente devasta e costruisce e senza curare abbandona.

           Alessandro Carnevale in questo studio quasi ossessivo delle declinazioni possibili di queste perdute cattedrali dell'industrializzazione fornisce una restituzione materica, carnale e appassionata che si fa quando puntuale, quando estetizzata ed astratta, regalando a questi brandelli di contemporaneità l'aria atavica di una pittura rupestre. Leggerne la prepotente tridimensionalità rappresentandola con sovrapposizioni, incisioni, interventi altri, ma anche ridare dignità descrivendo, documentando, ponendo la drammatica evidenza di scandali senza voce dinnanzi al distratto occhio comune.

           Il metallo che Carnevale sceglie come foglio bianco su cui costruire le sue riflessioni è l'elemento naturale di questi freddi scheletri della nostra realtà industriale in declino, simbolo della devastazione cieca del territorio che si trasfigura qui in immagini post atomiche cariche di toni acri e pungenti come gli acidi che le hanno create, in un susseguirsi di atti e pratiche che violentano la gelida lastra e ne restituiscono l'immagine nuda ed inequivocabile, solcata di acrilico e tecniche commiste.

           I titoli che le opere si portano addosso sono ironici macigni che denunciano la spietatezza di immagini che ripetono all'infinito, senza soluzione di continuità, circolo vizioso che tutto uniforma, che non lascia emergere distinzioni e peculiarità, ma solo l'appiattimento di uno scenario che si fa cliché senza ammettere emersione ed eversione del singolo, ma solo un assoggettarsi alla devastazione e all'abbandono generalizzato.

    “I giardini dell'Eden” sono grovigli di ferro che protendono verso il cielo, epurati di ogni presenza naturale. La “Natura morta contemporanea” è un maestoso alveare di cavi d'acciaio ormai inerme ed inerte, senza che nessuno e niente lo popoli. “La trasfigurazione” è quella di una torre che si staglia  su di uno sfondo inquinato e saturato dai fumi delle fabbriche.

    Anche “L'altrove” non si salva, perché non sembra esistere un luogo altro, una prospettiva diversa, un orizzonte che escluda dallo sguardo questo skyline sui generis che diventa il solo scenario contemplabile.

           Null'altro che reperti della modernità che nella postmodernità diventano ruggine. Sono gli spettri di una generazione  che si dissolve, le carcasse di un sogno effimero, panorama grottesco di province in declino che non trovano altro che distruzione e abbandono.

           L'opera di Carnevale è denuncia, è grido, è silenzio che si fa urlo, è il paesaggio che si ribella al degrado che si insinua e che tutto copre, che chiede di essere rivalutato e recuperato, perché non c'è dignità nella mancanza di scopo, nell'inoperatività di una salma spenta, svuotata della sua ragione d'essere e resa inattiva, annientata.

           Sono totem, che perdono di senso originario e divengono griglie mentali, gabbie metalliche che racchiudono “Dissolvenze”, e che loro stesse si dissolvono nelle nebbie e nell'usura, pronte a crollare come bestioni feriti a morte e a divenire ancora meno di niente.

           Sono corpi freddi che il gelo metallico restituisce alla perfezione, Amabili Resti di un'era che fu e che qui si descrive nel crudo permanere dei suoi retaggi.

     

    Gabriella Cerbai

  • Caos - Stefania Carozzini

    Non deve essere stato facile per Alessandro Carnevale convivere con un paesaggio spettrale quali sono le fabbriche abbandonate dell’entroterra ligure, luoghi che mettono in moto nell’occhio di chi guarda tanti interrogativi.

           Di fatto, tali luoghi sono stati per lui un grande regalo, perché gli hanno aperto le porte della fantasia e dell’immaginazione. Le rovine ispirano il senso di disfacimento delle cose prodotte dall’uomo e, certamente, uno spirito romantico aleggia intorno alla visione di Alessandro che cerca nella dinamicità del sublime un punto fermo, un dialogo tra la realtà e il tempo che corrode le cose.

           Alessandro Carnevale, artista, musicista, poeta e scrittore, non ha lasciato cadere nel vuoto quelle immagini da tempo custodite nel suo cuore e nella sua mente.  Esse rivivono in un eterno presente, dove trovano la loro definitiva dimora perché, forse, solo l’arte può riscattare la memoria, farne materia viva e pulsante. Quelle lastre di ferro da lui recuperate in quei luoghi sono come fossili sui quali egli incide un’altra temporalità. Tra dolore e passione, si accendono così scintille che mettono in moto altre tracce dell’esistere, affinché l’arte possa riempire il vuoto, come fuoco che non cesserà mai di bruciare nel combustibile dell’ispirazione.  La luce non è più riferita alle cose ma tende a rivelarsi come autonoma entità atmosferica, ed è questo il segnale di come l’artista percepisca sempre di più la dimensione che va oltre il visibile, oltre lo spazio e il tempo dove non c’è confine tra cielo e terra, tra sopra e sotto, dove tutto vibra della stessa intensità ed energia.

           Carnevale trasforma ciò che è destinato all’oblio, alla distruzione e trasmette con il suo lavoro di attento ricostruttore sulla via della ruggine, una sorta di ricucitura simbolica, individuando i segnali di ciò che il tempo non può corrompere e non può ossidare.

           Dal linguaggio pittorico emerge tutta l’effimera fragilità dell’istante, dove si giocano i destini dell’immaginario che sublimano il nostro quotidiano. Ciò che è costruito dall’uomo e non è in armonia con la natura è destinato a essere spazzato via, e Alessandro ha inteso bene questo messaggio, ed ha capito che appropriarsi del reale in senso poetico e simbolico è la chiave per captare le metamorfosi del contemporaneo.

           Sul ferro, su quei resti che sono come scaglie di un lontano big bang, Alessandro Carnevale riscrive la sua storia.  Ci invita a provare stupore, ridando vita a ciò che sembra non averne più, aprendo nuovi varchi nell’infinito mondo della creazione.

           Le industrie dismesse, come antichi vascelli di un lontano naufragio, sognano una degna sepoltura, e Alessandro si tuffa in un ipotetico mare e scatta immagini dei relitti. Li sorvola, libero, annotando luci e ombre e intercettando segnali di fuochi in lontananza. Incide la ruggine, il ferro controllandone il processo chimico, segue le tracce di una memoria che si lascia attraversare.

           A una terra ferita da troppo peso, da escrescenze inutili che anelano alla rimozione, risponde con l’arte unica cura risanatrice alle ferite dell’uomo.

           Le sue “tele” ferrose sono il diario di questi processi energetici, interattivi e trasformatori. Il caos è la partitura sulla quale s’iscrive una nuova realtà e il suo mondo è lì per testimoniare e per trovare un ordine interno al disordine, nella costante domanda che ci segue nella vita, come nell’arte: da dove vengono le idee e le cose, come nascono e come si sviluppano? Qual è il destino del nostro fare?

           E quegli edifici privati della loro funzione, quasi un fenomeno di disastro naturale, sono l’emblema della rinuncia nichilista del nostro tempo, la rinuncia al valore della bellezza. L’arte però non può e non deve abdicare al suo ruolo: è in questa fiducia nella creazione che s’iscrive la poetica di Alessandro Carnevale.

           Non resta che tornare a guardare le cose del mondo lasciandosi alle spalle l’orrore e il frastuono, come un esploratore che cerca negli abissi del quotidiano un silenzio non più abitato dalla solitudine, le tracce di senso e di meraviglia, con un atto che è amore, volontà di comunicazione, struggimento, avventura. Per imprimere sulle cose un pensiero permanente. Per attraversarle nel desiderio di ridare tensione esistenziale a ciò che ci circonda, con rigore lucido, drammatico, calamitando lo spazio del nostro esistere e aprendolo alla bellezza e alla verità.

     

     

    Milano, 14 Giugno 2013

     

  • Sullo scandalo meccanico - Sara Ferrari

    Un sottile gioco di trame e bagliori metallici pervade l'opera di Alessandro Carnevale. Affascinano le linee che la ruggine disegna sulla superficie metallica, in un lento ma progressivo processo di corrosione, da calibrare tramite l'uso attento e controllato di sostanze acide. L'artista non ha il completo controllo sul procedimento creativo: emerge in tutta la sua evidenza lo sforzo titanico da lui operato nel tentativo di dominare l'incontenibile energia della materia. Le opere che costituiscono la serie sono realizzate esercitando la tecnica pittorica direttamente su supporti metallici: la varietà dei mezzi espressivi di cui si avvale l'artista (acrilici, colori a olio, tempere, vernici industriali) corrisponde ad un'elevata volontà di sperimentazione, unendo in un simbiotico collaudo le tecniche appartenenti alla tradizione pittorica occidentale ai materiali legati alla moderna realtà industriale. L'attività artistica si configura così nella sua essenza maieutica, distruttiva e creativa insieme: è necessario che la ruggine aggredisca la superficie metallica per permettere all'immagine di emergere dal fondo del supporto. Allo stesso modo occorre che il Tempo svolga la sua azione erosiva sui reperti dell'archeologia industriale, autentici protagonisti delle creazioni di Carnevale, affinché essi approdino ad una dimensione estetica.

           L'attenzione riservata dall'artista alla realtà dei residui inutilizzati dell'industrializzazione è legata a doppio filo allo scenario che fece da sfondo agli anni dell'infanzia, quell'entroterra ligure costellato da stabilimenti e infrastrutture industriali estromessi dal circuito produttivo e abbandonati al naturale deterioramento. L'opera dell'artista savonese e la sua stessa concezione di territorio non può prescindere dall'esperienza di questi giganti dai piedi d'argilla, simboli decaduti dello sviluppo economico. Ne emerge una perenne dicotomia tra denuncia e senso di appartenenza, tra rifiuto al cospetto dello scempio operato dall'uomo e attrazione nei confronti di qualcosa che viene percepito come parte integrante del proprio vissuto, della propria quotidianità.

           Per archeologia industriale si intende oggi “tutto l'arco delle discipline attinenti all'ambito della ricerca e del progetto che si indirizzano alla conservazione e al riuso, alla riscoperta e alla valorizzazione dei reperti fisici e culturali, relativi alla storia dell'industria e del lavoro a essa connesso, a partire dal periodo della rivoluzione industriale”. La progressione del processo industriale ha operato profonde e radicali trasformazioni nelle apparenze naturali del paesaggio italiano. Gli effetti della crescente antropizzazione del territorio sono ora oggetto di indagini volte a definire e tutelare i reperti del passato industriale della nostra penisola. Le attività di salvaguardia, in questo caso, non ricorrono all'imposizione di vincoli, ma si concretizzano nell'attribuzione di un valore aggiunto, di nuove accezioni e funzioni, a fabbricati infrastrutture esclusi ormai dal ciclo produttivo imprenditoriale. Il medesimo intento di recupero di territori, macchinari e costruzioni industriali permea l'opera dell'artista ligure: le memorie archeologiche, che giacciono inutilizzate nel cimitero dell'industria italiana, sono restituite ad un'inedita dimensione culturale, assumendo un nuovo valore d'uso e transitando a pieno titolo dalla sfera della produttività al rango della contemplazione estetica.

           L'interesse per l'anonima periferia industriale della moderna metropoli, per anonimi edifici privi di peculiarità estetiche, richiama alla memoria le serie fotografiche di Bernd e Hilla Becher dedicate a singole categorie di edifici industriali (stabilimenti siderurgici, acquedotti, torri di raffreddamento, cisterne). Le campagne di documentazione fotografica condotte dai coniugi tedeschi furono inaugurate dall'esplorazione del vasto bacino minerario della Ruhr, in Germania, una delle più estese aree di archeologia industriale in Europa. I risultati di tali ricerche sono fotografie dall'impianto rigidamente frontale ed oggettivo, contraddistinte dal rigore del bianco e nero, dall'uniformità della componente luministica e dall'assenza totale di persone all'interno dell'inquadratura. L'eliminazione della componente umana accomuna, con un notevole salto spaziale e temporale, le opere dei coniugi Becher alle creazioni di Alessandro Carnevale: rispetto ai fotografi tedeschi, l'autore savonese non si avvale di canoni, di moduli estetici così rigorosi e di conseguenza le sue opere non ne condividono l'apparenza impersonale né la rigidità compositiva.

           Un minimo comune denominatore è da ricercare tuttavia nell'uso seriale del mezzo espressivo, volto a preservare i soggetti ritratti dalle ingiurie del Tempo, preservandone il carattere di documentazione quali emblemi di un preciso momento storico: “la serie e la ripetizione servono per catturare il tempo, un'altra cosa invisibile”. Carnevale opera attraverso procedimenti seriali, si concentra sulle stesse tipologie di soggetti: la ripetizione è parte integrante del suo procedere creativo. Essa costringe l'artista a concentrarsi su ciò che egli innalza a soggetto delle sue realizzazioni, giungendo a carpirne progressivamente l'essenza.

           Attraverso gli interventi posti in opera, egli fa transitare gli edifici ormai destinati alla demolizione ad un nuovo livello interpretativo, costringendo lo spettatore a rivalutare la realtà urbana che lo circonda e a comprendere che nonostante tutto le vestigia della cultura industriale gli appartengono intimamente.

     

    Sara Ferrari

  • La poesia delle ruggini - Gianfranco Barcella

    Alessandro Carnevale riconferma, ancora una volta, il postulato greco che vuole l’artista vero prima di tutto padrone della Tecnè. La sua poetica però non si ferma agli afflati lirici del passato: esprime con forza tutto il travaglio del suo tempo e con la sua opera provocatoria ci ricorda che l’uomo è un essere determinato da contraddizioni: non soltanto egli esiste, ma è anche cosciente della sua esistenza; non soltanto è cosciente della sua esistenza ma vuole anche mutarla.

           La nostra storia è il conflitto dialettico fra l’ideologia e l’idea della verità, fra volere e sapere, fra il desiderio di mutare la nostra vita e l’inerzia della vita stessa. Carnevale si aggira continuamente fra i presupposti materiali della sua esistenza ed i suoi obiettivi. Il suo processo pare infinito.

           Le sue opere offrono l’appagamento della bellezza formale come un premio allettante per lo sguardo. E ottengono il vero scopo dell’arte: quello di liberare le tensioni presenti della nostra anima e quella bellezza – a mio modesto avviso –, non fa parte dei suoi obiettivi finali. Nella somiglianza formale dei dipinti del giovane artista si deduce che le opere stesse sono vicine nel tempo e nello spazio.

           Arnold Hauser affermava che, con la lettura attenta delle caratteristiche formali e tematiche delle opere d’arte, buona parte del lavoro di critica stilistica era già compiuto. Mi permetto di aggiungere però che la maestria di sublimare la ruggine in poesia non rivela solo uno stile particolare, originale ed inconfondibile ma manifesta un impegno storico d’interpretazione della realtà che farà epoca.

           L’arte di Carnevale è colta, autentica, rigorosa, e sgorga sempre da un confronto con i problemi della vita; manifesta una tensione continua per offrire un significato all’esistenza, che si può sintetizzare con un postulato di raggiante speranza, immerso in un perpetuo crepuscolo il quale non va in alcun modo frainteso.  Questo è il messaggio che si disvela solo al livello più alto dell’attività creativa.

     

    Savona, giugno 2013